IL PRETORE
   Alla  pubblica  udienza  del  5 novembre 1998 ha pronunciato, dando
 immediata lettura del solo dispositivo, la  seguente  ordinanza,  nel
 procedimento  penale a carico di Sancin Primoz, imputato del reato di
 cui all'art. 341 c.p., perche' in una lettera  indirizzata  al  dott.
 Vincenzo  D'Amato,  Presidente del Tribunale di Trieste, ne offendeva
 l'onore  ed  il  prestigio  accusandolo  di  "diniego  di  giustizia,
 discriminazione etnica, inganno":
   In Trieste nell'ottobre 1995.
   Redidivo semplice.
                        Svolgimento del processo
   All'udienza dibattimentale, prima di ogni altra eccezione o difesa,
 il difensore dell'imputato, alla presenza dello stesso Sancin Primoz,
 che  si  rifiutava  di  parlare in italiano, eccepiva la nullita' del
 decreto di citazione a giudizio, notificato al prevenuto  in  data  8
 marzo  1997  presso la sua residenza anagrafica in Trieste, assumendo
 la violazione dell'art. 109 c.p.p., sul presupposto che, appartenendo
 il Sancin al gruppo etnico sloveno di minoranza insediato stabilmente
 nel  territorio  della  regione  Friuli  Venezia Giulia, ed avendo il
 giudicabile avanzato esplicita richiesta in  tal  senso  al  pm.,  il
 decreto  di  citazione  a giudizio avrebbe dovuto essergli notificato
 corredato  della  traduzione  nella  lingua  slovena:  al   contrario
 soltanto  la  relata  di  notifica  dell'atto  di citazione risultava
 redatto in duplice lingua.
   Al medesimo fine, in subordine alla declaratoria  di  nullita'  del
 decreto   di  citazione  a  giudizio,  veniva  rinnovata  in  udienza
 l'istanza di traduzione.
   La difesa eccepiva altresi' la violazione del diritto di difesa, in
 relazione alla norma di cui all'art. 26,  comma  secondo  disp.  att.
 c.p.p.  assumendo  che la sua nomina, quale difensore di ufficio, era
 avvenuta senza tener conto  dell'appartenenza  etnica  o  linguistica
 dell'imputato, e conseguentemente chiedeva che l'autorita' procedente
 provvedesse   alla  nomina  di  un  nuovo  difensore  da  scegliersi,
 attingendo  ai  turni  di  reperibilita'  predisposti  dal  Consiglio
 forense  della  prov.  di  Trieste,  tenendo conto dei criteri di cui
 all'indicato art.  26 disp. att. cpp. Nel richiedere  infine  l'esame
 dell'imputato, insisteva affinche' al giudicabile fosse consentito di
 esprimersi,  anche  in  sede  di  dichiarazioni spontanee in sloveno,
 previa nomina di un interprete, e questo ancora ai sensi del comma  2
 dell'art. 109 c.p.p.
   Per  l'eventualita'  che  il pretore scrivente non ritenesse che le
 richiamate disposizioni codicistiche dovessero applicarsi nel caso di
 specie, ovvero nello svolgimento di un processo penale per un  reato,
 commesso  nel  territorio  di appartenenza della minoranza etnica cui
 appartiene l'imputato, ma devoluto, ai sensi dell'art. 11 c.p.p.  (in
 materia di procedimenti riguardanti i magistrati), alla competenza di
 un'autorita' giudiziaria non insediata nel territorio ove ha sede  la
 comunita'   di   minoranza   linguistica,   la  difesa  dell'imputato
 sollecitava  la  proposizione  di  una  questione   di   legittimita'
 costituzionale  degli  artt.  109,  143 c.p.p. e 26 disp. att. c.p.p.
 nella parte in cui  non  prevedono  l'applicabilita'  delle  garanzie
 difensive  ivi  sancite anche nel caso de quo, con i riferimento alle
 norme di cui all'art. 3,  6,  24  della  Costituzione,  asseritamente
 violate.
                        Motivi della decisione
   Osserva  in  primo luogo la scrivente che nel caso di specie non e'
 assolutamente  indubbio  la  effettiva  conoscenza,  da  parte  dell'
 imputato,  cittadino  italiano, quand'anche appartenente ad un gruppo
 etnico  e  linguistico  di  minoranza,  della  lingua   italiana   e,
 conseguentemente,  del  tutto  inconferente  deve ritenersi essere il
 richiamo, da parte della difesa  dell'  imputato,  all'art.  143  del
 c.p.p.,  riguardante  la  nomina,  obbligatoria,  dell'interprete  in
 favore dell'imputato, italiano o straniero che non conosca la  lingua
 italiana.  E'  indubbio  invece  che,  in questo caso, si verta nella
 diversa ipotesi in cui un cittadino italiano, di madre lingua diversa
 da quella  italiana,  per  l'appartenenza  ad  un  gruppo  etnico  di
 minoranza,   stabilmente   stanziato  in  una  parte  del  territorio
 italiano, rivendica l'uso della lingua di origine nei rapporti con le
 autorita' giudiziarie,  a  prescindere  dalla  sua  conoscenza  della
 lingua "ufficiale", quale forma di riconoscimento, e di tutela, di un
 proprio  diritto  anche  costituzionalmente  garantito  (art. 9 della
 Cost.), del quale sono appunto espressione gli artt.  109 c.p.p. e 26
 disp. att. c.p.p.
   La   questione,  nei  limiti  da  ultimo  evidenziati,  ovvero  con
 esclusivo riferimento agli artt. 109 c.p.p. e 26 disp.  att.  c.p.p.,
 e'  senz'altro  rilevante  atteso che si tratta di decidere in ordine
 alla doverosa (o meno) osservanza di determinate formalita' incidenti
 tanto sulla regolare documentazione degli atti processuali  destinati
 all'imputato,  quanto  sulla  regolare  assunzione  di prove (l'esame
 dell'imputato), quanto infine sulla regolare  designazione  e  nomina
 del  difensore  di  ufficio,  il  cui  mancato  adempimento  (ove  si
 ritenesse  che  le  medesime  formalita',  avrebbero  dovuto   essere
 accordate)  dovrebbe  ritenersi  sanzionato  a  pena  nullita'.  Piu'
 precisamente si prospetterebberodelle nullita' di ordine  generale  a
 regime   intermedio   per   violazione  di  disposizioni  concernenti
 l'intervento e l'assistenza dell'imputato (ex artt. 178  lett.  c)  e
 180  c.p.p.).  Nullita'  che,  se  tempestivamente  rilevate (come e'
 avvenuto nella fattispecie) sono poi destinate ad inficiare anche  la
 validita' degli atti successivi.
   Ritiene  invero  la scrivente che l'attuale tenore (e vigore, anche
 tenuto conto del diritto  vivente)  delle  disposizioni  codicistiche
 summenzionate  non ne consenta l'applicazione nel caso di specie.  Il
 chiaro tenore letterale del secondo comma dell'art. 109 c.p.p.   (cui
 rinvia  anche  l'art.  26  delle disp. di att. c.p.p.) secondo cui le
 formalita'  di  garanzia  ivi  previste  si  applicano  dinanzi   all
 autorita' giudiziada avente competenza di primo grado o di appello su
 un  territorio dove e' insediata una minoranza linguistica e' infatti
 confortato dalle numerose pronunce della giurisprudenza di  merito  e
 di  legittimita'  che,  sulla  scia di numerose pronunce della stessa
 Corte Costituzionale (a partire da quella della del  1982  (Sent.  C.
 della     Costituzione     num.     28'82:    che    ha    dichiarato
 l'incostituzionalita' dell'art. 137  del  previgente  cod.  di  proc.
 pen., in tal modo ispirando l'innovazione contenuta nell'attuale art.
 109  c.p.p.),  hanno affrontato sempre e soltanto il diverso problema
 della  necessita'  di  accordare  a  tali  cittadini  il  diritto  di
 esprimersi  nella  propria  lingua,  usufrendo della traduzione nella
 lingua italiana (cd tutela minima, laddove una tutela piu'  ampia  si
 realizza  soltanto  per determinate comunita' di minoranza, quali per
 esempio i cittadini di lingua tedesca della provincia di Bolzano, cui
 e' riconosciuto dallo Statuto della Regione Trentino  Alto  Adige  il
 diritto  di  scegliere la lingua in cui debbe svolgersi il processo),
 in qualsiasi rapporto che nel territorio di appartenenza si  instauri
 con le pubbliche autorita', comprese quelle giudiziarie, in funzione,
 in  quest'ultimo caso, sia delle esigenze di autodifesa che di quelle
 della difesa tecnica (cfr. oltre alla sent. n. 28'82 gia' richiamata:
 sent. C. Cost. n. 62 del 24 febbraio 1992, ord. C. Cost.  30  gennaio
 1994 n. 271 e 19 gennaio 1995 n. 16).
   Osserva   e   ritiene   la  scrivente  che  la  evidenziata  lacuna
 legislativa  fa  sorgere  piu'   di   un   dubbio   di   legittimita'
 costituzionale.  Infatti  considerato  che  le  esigenze  di garanzia
 connesse alle formalita' previste dagli att. 109 c.p.p.  e  26  disp.
 att.  c.p.p.  attengono a diritti soggettivi di rango costituzionale,
 quali  da  un  lato  il  diritto  al  riconoscimento  e  alla  tutela
 sostanziale   delle   minoranze   linguistiche   (art.  6  Cost.)  e,
 dall'altro, il diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel caso di  specie
 gli  stessi dovrebbero essere sacrificati, o quanto meno verrebbero a
 subire compromissioni non lievi, per la pretesa incompatibilita'  con
 la contemporanea tutela da accordare a interessi e diritti, di uguale
 rilevanza,  quali  sono  quelli  sottesi  ai criteri derogatori delle
 regole generali di competenza  per  territorio  di  cui  all'art.  11
 c.p.p.  (espressione  e  attuazione  dei  principi del buon andamento
 della pubblica amministrazione, in generale,  e  dell'amministrazione
 della  giustizia  in  particolare  (art.  97  e  108  Cost.).  E tale
 sacrifico  o  compromissione  appare   tanto   piu'   illegittimo   e
 ingiustficato,   in   quanto   appunto   si  risolve  nel  definitivo
 "allontanamento" di un processo che, riguardando  un  fatto  commesso
 nel  territorio  in  cui  e' stanziata e riconosciuta la minoranza e'
 destinato a rivestire i maggiori interessi ed  avere  la  maggiore  e
 piu'  immediata risonanza proprio nella stessa comunita' territoriale
 di appartenenza: sicche' l'esigenza di apprestare nella madre  lingua
 tanto l'autodifesa, quanto la difesa tecnica, e' massima e fortemente
 sentita.  Invero,  trattandosi di un cittadino italiano, allo stesso,
 in considerazione della sua appartenenza ad una minoranza linguistica
 riconosciuta, deve  essere  accordata  una  tutela  diversa,  ma  non
 inferiore,   a   quella  accordata  agli  altri  cittadini  italiani,
 nell'esercizio  del  diritto  di  difesa,  quando  siano  chiamati  a
 rispondere di illeciti commessi nel territorio del proprio paese.
   Al  riguardo  deve  osservarsi  che  il criterio di cui all'art. 11
 c.p.p., si differenzia nettamente  non  solo  dalle  regole  generali
 attributive  della  competenza  per  territorio  (di  cui  all'art. 8
 c.p.p.), ma anche  dalle  regole  suppletive  (di  cui  all'art.  9),
 essendo  a  tutte  comune  l'unica  ratio,  chiaramente connessa alla
 necessita' di radicare il processo nel territorio ove  maggiori  sono
 le  sue implicazioni, in ragione del luogo in cui l'illecito e' stato
 commesso, ovvero del  luogo  in  cui  vive  il  suo  autore,  laddove
 viceversa  il  soddisfacimento delle finalita' particolari sottese al
 criterio di cui all'art. 11 (serenita' e neutralita' del giudizio  di
 cui   e'   parte  un  magistrato),  richiedono  l'allontanamento  del
 processo.
   In tale contesto, ritiene la scrivente che l'esigenza di assicurare
 un  ragionevole  bilanciamento  di  diritti  ed  interessi   pubblici
 contrapposti,  aventi  tutti la medesima rilevanza costituzionale, in
 luogo dell'arbitraria  compromissione  degli  uni,  in  favore  della
 tutela  riservata  incondizionatamente  agli  altri,  avrebbe  dovuto
 indurre il legislatore a prevedere espressamente l'applicazione delle
 norme di cui all'art. 109 c.p.p., anche nel caso in cui, per  effetto
 dello  spostamento  della competenza per territorio determinata dall'
 art. 11 c.p.p., il processo venga ad  essere  devoluto  ad  autorita'
 giudiziarie  diverse  da  quelle  aventi  sede  nel territorio ove e'
 insediata una minoranza linguistica riconosciuta. La presenza di tale
 lacuna legislativa  rende  non  manifestamente  infondata  l'asserita
 violazione degli artt. 3 commi 1 e 2, 6 e 24 della Cost.